CIBO E ROMANZI




Tra quarantotto ore morirò (…) Morirò, ma questo non ha importanza. Da ieri, dopo le parole di Chabrot, solo una cosa mi interessa. Morirò, e non riesco a ricordare un sapore che mi frulla nel cuore. So che quel sapore è la verità prima e ultima di tutta la mia vita, e possiede la chiave di un cuore che da allora ho messo a tacere. So che è un sapore dell’infanzia o dell’adolescenza, una pietanza primordiale e sublime che precede qualsiasi vocazione critica, qualsiasi desiderio e pretesa di parlare del mio piacere di mangiare. Un sapore dimenticato, annidato nel più profondo di me stesso e che, alle soglie della morte, si manifesta come l’unica verità che in vita mia sia stata detta – o messa in pratica. Lo cerco, e non lo trovo”.
La ricerca del sapore perduto è il filo conduttore del viaggio del protagonista tra i meandri della sua memoria; così, di recesso in recesso, conosciamo i luoghi, le persone, ma, soprattutto, i cibi che hanno fatto la vita di Monsieur Arthens: “il più grande critico gastronomico del mondo”, come si definisce lui; “una putrida carogna”, “un uomo brutale”, “un gran bastardo”, come lo definiscono gli altri. Figli compresi. Perché Pierre Arthens questo, essenzialmente, è: un essere odioso e odiato.
Ben pochi riescono a provare per il cinico despota, colpevole di aver demolito le reputazioni di tanti prestigiosi chef, di essere stato padre assente e marito fedifrago, di non aver mai allungato un solo centesimo di elemosina, qualcosa di diverso dall’odio viscerale e illimitato: di tutti i personaggi che gli gravitano intorno e che alternano la loro voce alla sua nel corso della narrazione (la portinaia Renée, la figlia Laura, il figlio Jean, il medico e amico Chabrot, la mendicante Gégène, l’amante dimenticata Laure, la cuoca Marquet, il nipote Paul…) l’affezionata domestica e la moglie innamorata e devota costituiscono le uniche voci fuori dal coro, le sole due note stonate.
Così, mentre Monsieur Athrens si appresta al trapasso nel suo lussuoso appartamento di Rue de Grenelle e a turno, col pensiero, le sue vittime gli porgono l’estremo, monocorde saluto a suon di “Muori!” e “Crepa!”, i ricordi del morituro si snodano tra gli stufati della nonna, le sarde alla griglia delle estati in Bretagna, i pomodori dell’orto di zia Marthe, il sashimi dello chef Tsuno, i gamberetti di Destrères, il pranzo della fattoria di Colleville, “il” breakfast del “John’s Ocean Beach Cafe”, il PMG dell’amico del nonno, il sorbetto all’arancia di Marquet e la maionese di Lessière.
Alla fine ritroverà quel sapore, tanto amato in gioventù e rincorso in punto di morte quanto vilipeso e fuggito negli anni della scalata alla gloria (“Avrei potuto scrivere tutta la vita su di lei, e invece ho scritto tutta la vita contro di lei”); tramite esso, si riconcilierà con se stesso e con la sua vera natura e, finalmente, potrà morire in pace: “nel nome del padre, del figlio e del bignè, amen”.
Il romanzo della Barbery rappresenta il trionfo dell’arte descrittiva: le sue pagine traboccano di descrizioni memorabili, di quadretti sublimi dipinti intingendo il pennello della fantasia nella lingua più sontuosa, più inusitata, più finemente cesellata.
Ecco la strada che conduceva Athrens, bambino in vacanza, dalla spiaggia alla città, rievocata nel suo tripudio di colori e rumori: “Era una bella strada che in molti punti si affacciava sull’Atlantico; le ville sommerse dagli oleandri che talvolta, nell’illusoria trasparenza di un cancello lavorato, lasciavano intuire la vita luminosa che si muoveva al loro interno; più lontano, la fortezza ocra a strapiombo sui flutti di smeraldo, che allora nemmeno immaginavo fosse una lugubre prigione; poi la spiaggetta di Temara, raccolta, protetta dal vento e dalle ondate, che squadravo con lo sdegno di chi del mare ama solo le asperità e i tumulti; la spiaggia successiva, troppo pericolosa per poterci fare il bagno, punteggiata di qualche pescatore temerario con le gambe abbronzate lambite dalle onde, e che l’oceano sembrava voler inghiottire in un rabbioso baccano; poi i dintorni della città, con il suk traboccante di pecore e tende chiare che sbattevano al vento, i sobborghi brulicanti di gente, allegramente rumorosi, poveri ma salubri nell’aria ricca di iodio”.
Ecco zia Marthe, impressionante simbolo di un’umanità reietta capace di sorprendere per un talento eccezionale che si porta dentro: “La casa di zia Marthe, una vecchia catapecchia sepolta sotto l’edera con quella finestra murata sulla facciata, aveva l’aspetto un po’ sinistro che si addiceva perfettamente ai locali e alla loro inquilina. Zia Marthe, la maggiore delle sorelle di mia madre e l’unica a non aver ereditato un soprannome, di fatto era una vecchia zitella arcigna, brutta e puzzolente che viveva tra il pollaio e le conigliere in un fetore pestilenziale. (…) Eppure nessuno mai uguaglierà il naso di zia Marthe quanto a raffinatezza. Quella vecchia schiappa era un Naso, un vero, grande, incommensurabile Naso che ignorava di essere tale, ma con una sensibilità incredibile che non avrebbe temuto rivali se mai se ne fossero presentati. E così quella donna rozza, semianalfabeta, quello scarto dell’umanità che ammorbava tutto ciò che la circondava con il suo olezzo putrescente aveva disegnato un giardino dagli effluvi paradisiaci (…) In campagna molte donne anziane sono dotate di un intuito sensoriale fuori dal comune che mettono al servizio del giardinaggio, dei medicamenti alle erbe o dello spezzatino di coniglio al timo e, geni misconosciuti, muoiono senza che nessuno sappia delle loro doti – il più delle volte, infatti, non ci rendiamo conto che cose in apparenza tanto insignificanti e irrisorie, come un orto caotico nel cuore della campagna, possono avere qualcosa in comune con le più belle opere d’arte”.
Ed ecco le sensazioni prodotte dalla degustazione di un semplice boccone di pane, che, affidate alla penna della Barbery, assurgono a pura poesia: “L’assalto, che di primo acchito si scontra con la muraglia della crosta, dopo che ha superato questa barriera resta sbalordito dalla remissività che gli riserva la mollica fresca. E’ quasi sconcertante l’abisso che c’è tra la scorza screpolata, a volte dura come pietra, a volte semplice manto che cede ben presto all’offensiva, e la morbidezza dell’interno che si raggomitola nelle guance con carezzevole docilità. Le fessure della crosta sono come richiami al mondo campestre: sembrano solchi di aratro, e così ci troviamo a pensare al contadino sul far della sera, al campanile del paese, sono appena suonate le sette e lui si asciuga la fronte con il risvolto della giacca, fine del lavoro. Al momento dell’incontro fra la crosta e la mollica, invece, davanti al nostro sguardo interiore si materializza un mulino: attorno alla macina vola la polvere di grano, l’aria è satura di pulviscolo volatile.”
Ma la Barbery non è soltanto una che te la racconta e te la descrive, condendo il tutto di sottile e gustosa ironia; è anche una che sa di filosofia e spolverizza la sua narrazione di spunti di riflessione davvero interessanti, culminanti nell’aforisma finale: “Il punto non è mangiare, né vivere, è sapere perché”.

“Estasi culinarie” mi è piaciuto e ne consiglio la lettura e la rilettura soprattutto ai consumatori frettolosi del panino all’ora di pranzo e delle cene davanti alla tivù, mangiatori ineducati o diseducati a gustare i cibi cogliendone l’anima.





5 commenti:

  1. Questo non l'ho letto, mantre lessi (chiarmante) "L'eleganza del riccio". Il modo di scrivere della Barbery mi ha conquistata subito, ma ancora di più il suo fare filosofia su ogni cosa. Ricordo che ho pensato: vorrei avere io quella capacità di farmi ispirare da una boccia di vetro che reputo orribile e basta!
    Ad ogni modo è stato un piacere incontrarti nel mio blog e... assolutamente da ampliare questa sezione! A presto.

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  2. un libro che è poesia pure per quanto riguarda le descrizioni: una su tutte il pomodoro mangiato appena colto, e la descrizione del pranzo "fuori programma" in campagna invitato da sconosciuti...bello bello, è piaciuto tanto anche a me...e il finale?? simpaticamente originale!

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  3. Bellissimo post, Lucia.. scusa per il ritardo, ma mi era sfuggito, ahimè!
    Sono pazza per i libri - anche io ho inserito di tanto in tanto alcuni post di libri legati in qualche modo alla cucina, e medito di creare proprio un blog dedicato alla lettura da mesi^_^ - e devo dire che mi hai davvero incuriosito... è un libro del quale, confesso la mia ignoranza, non avevo mai sentito parlare.. ma mi metterò in cerca subitissimo, per rimediare!

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  4. Ciao Lucia, grazie di essere passata dal mio blog, perchè venirti a trovare è stato un piacere, ho scoperto un altro titolo che non conoscevo, nell'universo dei libri a volte mi sento smarrita, ci sono talmente tanti che non arriverò mai a leggere...e la Barbery non la conosco, avevo sentito parlare dell'eleganza del riccio, per via del film, ma nemmeno quello ho letto. Ora dopo aver letto il tuo post lo acquisterò appena posso, perchè amo i libri che in qualche modo riguardano i cibi e inoltre la descrizione del boccone di pane è davvero bella.
    Vieni a visitare le mie ricette letterarie, non sono assolutamente recensioni, solo piccoli brani e sapori per ricordarmi momenti, ma dovrei ricuperare così tanti libri ancora, va beh poco alla volta. A presto Alex

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  5. Ciao carissima Lucia il tuo blog è molto più di questo, non saprei come definirlo. Per me che sono amante della lettura ti leggerò con molto piacere e mi sono unita tra i tuoi lettori. Una buona serata a presto!

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