Cinque lustri che manco dal mio paese. Un tempo sufficiente a vedere i miei due cuccioli diventare un uomo e una donna, ma non a disfarmi del corposo bagaglio di cultura e tradizioni gallipoline che mi sono portato dietro salendo su quel precoce treno del destino che mi avrebbe condotto al Nord.
Così a Pasqua, come a Natale, sono corsa a rifugiarmi in quei riti a cui sono indissolubilmente legata fin da quando avevo i boccoli e i calzettoni bianchi traforati e tutti mi chiamavano “Lucì”, perché al Sud i diminutivi sono d’obbligo.
Ho rivissuto, grazie alle foto di Mariano Polimeno, carissimo amico del “tempo delle mele”, i riti della Settimana Santa, partendo dalla “Madonna che va in cerca del figlio morto”, come definivo da bambina la Processione dell’Addolorata.
Quanta pietà suscitava nel mio animo quella povera signora vestita di nero con il viso stravolto dal dolore rivolto al Cielo, tanta paura mi facevano i “mai”, gli incappucciati che accompagnavano Maria nel suo lungo peregrinare per le vie della città. In effetti, per quei cappucci che, senza voler essere blasfemi, evocano il temibile ku klux klan, quelle figure un po’inquietanti lo sono; all’epoca ignoravo l’esistenza del ku klux klan, ma gli incappucciati mi inquietavano lo stesso. Soprattutto quelli che avevano i piedi nudi (ma se beccano un vetro per strada? pensavo) e portavano delle grosse pietre appese al collo oppure si percuotevano in continuazione le spalle con uno strano aggeggio di ferro (la penitenza e l’autoflagellazione non mi riuscivano facili da comprendere in un’età in cui non capivo nemmeno le punizioni che ogni tanto mi infliggeva la mamma).
Sempre grazie a Mariano, al suo amore per la "perla ionica" ed alla sua indiscutibile bravura nel cogliere con l’obiettivo gli aspetti più significativi della vita quotidiana della città, ho potuto rivivere anche l’altra Processione carica di fascino e di mistero che è nel cuore di ogni gallipolino: “l’Urnia”.
Il Venerdì Santo, verso l’imbrunire, dalla Chiesa del Crocifisso che si trova sulla riviera di scirocco del centro storico si avvia la Processione che porta per tutto il paese una serie di statue in cartapesta raffiguranti le varie fasi della Passione di Cristo: l’agonia nel Getsemani, la Flagellazione, l’Ecce Homo, Cristo con la Croce, la Crocifissione. La Confraternita del Crocifisso, che ha l’onore di organizzarla, si distingue per la corona fatta con pianta selvatica di asparago che i confratelli indossano sul cappuccio rosso a simboleggiare la corona di spine di Gesù.
Fa appena in tempo a concludersi la grande processione de “l’Urnia” del
Venerdì Santo che i fedeli si dirigono verso la
piccola Chiesa della Purità, per prendere parte all'ultima manifestazione quaresimale pubblica della religiosità popolare: la Processione della Desolata, organizzata dalla Confraternita dei "bastaggi". Il nuovo corteo religioso ripercorre le stradine del centro storico nel buio della notte squarciato solo dai quattro lampioni, dal lamento della tromba e dal lugubre rullare del tamburo. I gallipolini non si stancano mai di dimostrare la loro devozione, sia accompagnando la nuova processione malgrado i piedi facciano male e gli occhi stentino a mantenersi aperti sia affacciandosi alle finestre ed ai balconi per mormorare una preghiera al passaggio della statua settecentesca della Madonna e di quella del Cristo Morto, adagiata in una preziosa Urna rivestita d'oro zecchino. Al sorgere del sole del Sabato Santo, Madre e Figlio fanno il loro ritorno sulle spalle dei fedeli nella bellissima Chiesa nel seno della Purità.
Le luci dell'alba e del tramonto, il rumore della trozzula, il silenzio notturno rotto solo dal rullo del tamburo e dal mesto suono della tromba, l'enorme quantità di gente che si riversa in strada per assistere commossa al dipanarsi delle processioni per i vicoli antichi e le vie del borgo nuovo, l'atmosfera medievale, irreale e quasi magica, regalano sensazioni che, per dirla alla gallipolina, "facene ccu sse 'mpilene li carni", cioè fanno venire la pelle d'oca.
Bisogna provarle, per capire di cosa parlo.
Il prossimo anno, fate un salto a Gallipoli nel periodo della Settimana Santa. E se riuscite a trattenervici fino a Pasqua, disertate i pur ottimi ristoranti locali e cercate una famiglia che vi ospiti a pranzo per poter assaggiare il piatto principe delle tavole pasquali gallipoline: "lu spazzatu". Una volta per questa preparazione si utilizzava lo spezzatino di agnello, ma chi non se lo poteva permettere si arrangiava con tipi di carne meno costosi. Spesso si riciclava la carne usata per fare il brodo, troppo asciutta e stopposa per essere consumata così com'era. Come si fa "lu spazzatu"? Si inizia mettendo a soffriggere in olio extravergine di oliva un misto di carni tagliate a pezzetti piccoli (manzo, vitello, agnello) con una cipolla tritata; si aggiunge un goccio di vino bianco e ad evaporazione avvenuta si unisce della passata di pomodoro preferibilmente casalinga e sale quanto basta. La cottura deve avvenire a fuoco lento e durare circa un'ora. Nel frattempo si prepara un impasto con pane di grano duro grattugiato, formaggio (metà parmigiano e metà pecorino, sardo o toscano), uova e un trito di menta o prezzemolo. Indicativamente calcolate un cucchiaio di pane ed uno di formaggio per ciascun uovo e ricordatevi che l'impasto deve risultare bello morbido. Quando il sugo è pronto versateci il composto sbriciolandolo con la mano sinistra e rimestando con la destra. Lasciate cuocere per una decina di minuti e godetevi il vostro "spazzatu".
Spero che abbiate trascorso una serena Pasqua :-)