martedì 13 dicembre 2011

BISCOTTI VANIGLIATI AL CIOCCOLATO BIANCO




Pur desiderando postare questa ricetta già da diverso tempo, soltanto oggi ho trovato una mezz'oretta per farlo e coincidenza vuole che sia il mio onomastico; permettetemi, quindi, di invitarvi virtualmente nella mia cucina (l'ambiente della casa che amo di più per vitalità e calore) a gustare, tra una chiacchiera e l'altra, questi aulenti e DELIZIOSI biscottoni che (scommettiamo?) vi conquisteranno fin dal primo morso!  Ovviamente porgo i miei auguri (ed un biscotto in più!) a tutte le amiche foodblogger che condividono con me questo nome luminoso e bellissimo: Lucia :-) 






INGREDIENTI
(PER UNA QUINDICINA DI BISCOTTI GRANDI):


270 grammi di farina

150 grammi di burro

150 grammi di zucchero

2-3 tuorli d'uovo
(dipende dalla grossezza)

un cucchiaino di estratto purissimo di vaniglia

un pizzico di sale

7 grammi di lievito in polvere per dolci

125 grammi di gocce di cioccolato bianco

300 grammi di cioccolato bianco per la copertura

pasta di zucchero (facoltativa) per eventuale decorazione



Per prima cosa mescolate farina, zucchero, sale e  lievito; fate la classica fontana, disponete sui bordi il burro tagliato a pezzetti ed amalgamatelo velocemente alla farina fino ad ottenere un composto "bricioloso". A questo punto unite i tuorli e l'estratto di vaniglia e lavorate il tutto fino ad ottenere una frolla morbida alla quale incorporerete, poco per volta, le gocce di cioccolato bianco. Passate la pasta in frigorifero per una mezz'ora. Trascorso questo tempo riprendetela, stendetela sulla spianatoia infarinata e ritagliatevi i biscotti nella forma e nella grandezza da voi preferite. Cuocete i biscotti a 180 gradi in forno già caldo fino a doratura. Lasciateli raffreddare, quindi tuffatene la superficie nel cioccolato bianco fuso. Se volete decorarli con la pasta di zucchero fateli asciugare bene in frigorifero per tutta la notte. 
















Dimenticavo: l'infiocchettamento dei biscotti è opera di mia figlia! :-) 





      

lunedì 5 dicembre 2011

FROLLINI AL PARMIGIANO: RIVISITAZIONE DI UN CLASSICO




Stamattina mi sono svegliata col pensiero di pubblicare questo post perché ieri, quando ho caricato la foto di questi biscotti sulla mia bacheca di Facebook, diverse mie "amiche di web" me ne hanno richiesto la ricetta ed io ho promesso loro che gliel'avrei fatta trovare qui in tempi brevi. Siccome ogni promessa è un debito, ecco i "miei" frollini al parmigiano per Licia, Patty, Antonietta e company: "miei" non perché li abbia inventati io (in Internet si trovano decine e decine di ricette per realizzare questi meravigliosi stuzzichini che, magari accompagnati da un calice "bollicinoso", fanno subito festa!) ma perché la ricetta che vi propongo è fortemente "personalizzata". Innanzitutto ho dimezzato il burro ed aumentato il formaggio; inoltre ho aggiunto all'impasto un pizzico di lievito, per ottenere dei biscotti più alti e friabili.  Per curiosità, ho anche sperimentato la ricetta "classica" (quella che prevede la stessa quantità di farina e burro e all'incirca la metà di parmigiano). Il risultato? A mio avviso, decisamente inferiore!  I frollini sapevano di grasso, erano eccessivamente scioglievoli ed imperfetti anche dal punto di vista estetico.   





                                               
INGREDIENTI:


200 grammi di farina

200 grammi di parmigiano grattugiato

100 grammi di burro

2 tuorli d’uovo

un pizzico di sale

un pizzico di lievito per pizze e torte salate




Miscelate la farina con il parmigiano, il sale e il lievito. Incorporate alla miscela il burro ammorbidito tagliato a tocchetti ed impastate il tutto con i due tuorli, più in fretta che potete. Stendete la pasta sulla spianatoia infarinata e ritagliatevi i frollini nella forma desiderata aiutandovi con degli appositi stampini (io ne ho fatti alcuni rotondi e alcuni quadrati). Disponete i biscotti sulla placca del forno rivestita di carta da forno (con questa dose ne otterrete una ventina), spennellateli in superficie con l’albume tenuto da parte e passateli in forno preriscaldato a 180 gradi, tenendoceli per un quarto d’ora circa o comunque fino a lieve doratura. Lasciateli raffreddare completamente, quindi farciteli con salumi o patè.

























 

mercoledì 30 novembre 2011

I BISCOTTI DELLA VERITA'




Avrò anche scoperto l'acqua calda, visto che questi biscottoni (per lo più sotto forma di rustiche ciambelle), spopolano da sempre nel web e non esiste foodblogger che non ne abbia sperimentato la ricetta;  però a me st'acqua calda è piaciuta davvero tanto, e allora... perché no? Un bel cestino di biscotti al vino rosso lo vedo bene anche sulla mensa degli dei. Lo vedete anche voi? Eccolo, appena portato dal  dio Bacco! :-D Il quale va ora offrendo a tutti i divini commensali  un generoso bicchierozzo del suo  prezioso nettare in cui pucciarli :-)






INGREDIENTI:


1 bicchiere (di plastica) di buon vino rosso
 (io ho usato il Lambrusco)

1 bicchiere di zucchero

1 bicchiere di olio
 (usate un extravergine di oliva delicato oppure olio di semi di mais)

farina q.b.
(cercate di non superare i 3 bicchieri, così verranno più gustosi)

1 cucchiaino (raso) di lievito in polvere per dolci


Amalgamate gli ingredienti poco per volta: otterrete un impasto morbido col quale formerete dei biscotti nella forma che preferite. Passateli in un piattino pieno di zucchero semolato, poi disponeteli sulla placca del forno rivestita di carta da forno e cuoceteli per 15-20 minuti, a 180 gradi, in forno preriscaldato. Fateli raffreddare bene prima di gustarli!  E ricordate che "in vino veritas": quindi servitene una porzione abbondante al maritino e rimanete in attesa con l'orecchio teso :-D 
   








lunedì 31 ottobre 2011

NOCCIOLATA IPG PER STREGHE DOC




Allora, mie care blogstreghette: tutte pronte per il Grande Sabba di Halloween? L'appuntamento è per mezzanotte intorno al falò di Chabb (per arrivarci seguite la musica di Ligabue nell'aria) e ricordatevi di portare con voi un pugno di nocciole, frutto simbolo della segreta conoscenza, da mangiare prima della divinazione!  Anzi, visto che il tempo c'è, che ne dite di preparare con le nocciole addirittura una magica crostata da condividere alla luce spettrale della luna con qualche fascinoso fantasma? :-) 







INGREDIENTI:

350 grammi di farina di nocciole

250 di farina 00

250 grammi di zucchero a velo

50 grammi di zucchero semolato

un cucchiaio colmo di cacao amaro

un baccello di vaniglia

200 grammi di burro

1 uovo intero e 3 tuorli

mezza bustina di lievito per dolci

1 vasetto di crema di nocciole (io ho usato la Lindt, ma va bene anche la più comune Nutella)

1 vasetto di crema di miele e nocciole (a me l’hanno regalato; se non lo trovate potete ometterlo)

nocciole intere tostate q.b.
(io ho usato quelle piemontesi I.P.G.)

gel per lucidare la frutta




Miscelate i due tipi di farina con i due tipi di zucchero, il cacao, i semi di vaniglia estratti dal baccello ed il lievito. Incorporate al miscuglio farinoso il burro tagliato a pezzetti, amalgamandolo con le punta delle dita; infine aggiungete l’uovo intero e i tuorli. Lavorate il tutto velocemente, quindi raccogliete l’impasto a palla e passatelo in frigorifero per un’oretta (coperto da un foglio d’alluminio). Trascorso questo tempo, stendete la pasta in una tortiera apribile, imburrata e infarinata e cuocetela “in bianco” per una mezz’oretta a 180 gradi. Sfornate la crosta e lasciatela raffreddare. Fate un primo strato di crema di nocciole e miele e un secondo di crema di nocciole; disponete le nocciole sul dolce in modo circolare, fino a ricoprirne l’intera superficie. Terminate con una bella lucidatura delle nocciole e passate in frigorifero per qualche ora. Se vi avanza un po’ di frolla, come è successo a me, non buttatela: fatene delle ciambelline che userete, tagliate a metà, per decorare il bordo della torta. Buon Halloween a tutte !!!
































 






giovedì 6 ottobre 2011

FRUTTI DI BOSCO... IN PARADISO!






Centotrentatrè anni portati benissimo. No, non sto parlando di Rita Levi Montalcini!  La pluricentenaria in questione è la deliziosa signora Vigoni da Pavia, meglio conosciuta come… torta paradiso! Era infatti il lontano 1878 quando Enrico Vigoni, dell’omonima pasticceria ancora presente nel centro della città lombarda, codificò la ricetta di quella che sarebbe poi diventata la torta per eccellenza. Ma parlando di questa incantatrice di palati della Padania non si può non ricordare la pittoresca leggenda secondo la quale un frate della Certosa di Pavia avrebbe imparato la ricetta della torta paradiso da una giovane sposa conosciuta mentre, uscito di nascosto dal monastero, vagava per le campagne circostanti alla ricerca di erbe curative. Se oltre alle erbe e alla ricetta il fraticello abbia trovato altro, magari nel letto della soave sposina, non ci è concesso saperlo; fatto sta che il certosino preparò poi la torta per i suoi confratelli i quali, trovandola di una bontà estasiante, la denominarono “torta paradiso”.
La “morte sua”, secondo i più, è con farcitura di crema al latte e nevicata di zucchero a velo in superficie; se anche voi siete di tale parere, vi esorto a provare questa versione che ho ideato e sperimentato per la felicità di mia figlia, ghiotta di frutti di bosco: scommettiamo che la giudicherete superiore? Quando andrete per lamponi, però, occhio a non addentrarvi nei boschi attorno ai monasteri :-D





 
 
 
 
 
INGREDIENTI
 
 
PER LA TORTA PARADISO:
 
 
150 grammi di farina
 
150 grammi di fecola di patate
 
300 grammi di zucchero a velo
 
300 grammi di burro
 
4 uova intere e 4 tuorli
 
la buccia grattugiata di un grosso limone
 
vaniglia
 
1 bustina di lievito
 
 
PER LA MACEDONIA DI FRUTTI DI BOSCO:
 
 
lamponi, mirtilli, more, fragoline di bosco
(quantità a piacere)
 
liquore ai frutti di bosco
 
zucchero semolato
 
 
 
Lavorate il burro ammorbidito con lo zucchero a velo fino a renderlo cremoso, quindi, poco per volta, aggiungete le uova,  amalgamandole perfettamente al composto. A questo punto incorporate la farina, precedentemente miscelata con fecola e lievito; profumate il tutto con vaniglia e limone. Versate l'impasto in uno stampo grande per ciambella imburrato e spolverizzato di farina o di fecola e passate in forno per un'oretta a 180 gradi (il forno dev'essere già caldo). Nel frattempo preparate una bella macedonia con i frutti di bosco lavati ed asciugati con estrema delicatezza, uno spruzzo di liquore e qualche cucchiaiata di zucchero. Lasciate macerare in frigorifero fino a quando la ciambella sarà pronta (ovvero cotta e completamente raffreddata).
Poco prima di servire riempite il buco della ciambella con un misto di frutti di bosco, poi nappate generosamente la superficie del dolce con una salsina ottenuta frullando i lamponi con il liquido di macerazione e passando il tutto al setaccio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
















giovedì 22 settembre 2011

STRUDEL SETTEMBRINO






Non è la prima volta che vi propongo uno strudel e non sarà nemmeno l’ultima, perché questo “dolce di tedescheria”, come lo definì l’Artusi nella sua opera culinaria del 1891: La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, è uno dei dolci che amo di più e di cui sto sperimentando tutte le possibili varianti. Tutto ciò alla faccia della sua bruttezza, talmente sconfortante che lo stesso Artusi si preoccupò di avvisare: “Non vi sgomentate se questo dolce vi pare un intruglio nella sua composizione e se dopo cotto vi sembrerà qualche cosa di brutto come un’enorme sanguisuga o un informe serpentaccio, perché poi al gusto vi piacerà”.
Devo dire che, finora, il mio strudel preferito rimane quello classico mele-uvetta-pinoli, ma ho trovato molto gradevole anche questa versione settembrina che ho ideato semplicemente accostando alle mele del ripieno tradizionale i frutti tipici di settembre: uva e fichi (evitando l’aggiunta di frutta secca per provare un sapore nuovo, fresco, scioglievole e senza contrasti). Lo strudel di ciliegie e mandorle, per ora, si becca la terza posizione. E voi? Di che strudel siete? :-)
 
 
 
 
 
 




INGREDIENTI
 
 
PER LA PASTA STRUDEL:
 
 
250 grammi di farina

50 grammi di burro

1 uovo intero

1 cucchiaino raso di sale

1 cucchiaino colmo di zucchero

acqua tiepida q.b.



PER IL RIPIENO:


1 Kg di mele (renette o golden; io preferisco le golden)

2 cucchiaiate colme di zucchero

uno spruzzo di rum

la buccia grattugiata di due limoni e il succo di mezzo

cannella a piacere

un grappolo di uva bianca

5 o 6 fichi verdi ben maturi

confettura di frutta 

alcuni savoiardi






Disponete la farina a fontana sulla spianatoia e miscelatela con lo zucchero e il sale. Fate il buco al centro, rompeteci l'uovo (a temperatura ambiente) ed amalgamatelo alla farina; aggiungete il burro liquefatto e freddo e tanta acqua tiepida quanto basta per formare un impasto sodo ma lavorabile. Scaldate una pentola sul fornello e coprite con essa la pasta. Lasciate che quest'ultima "riposi" per circa mezz'ora. Nel frattempo dedicatevi alla preparazione del ripieno. Sbucciate le mele, tagliatele a fette sottili (spruzzandole con poco succo di limone per evitare che anneriscano a contatto con l'aria) e mettetele a macerare in frigorifero con zucchero, rum,  buccia di limone e cannella. Pelate gli acini e privateli dei semi. Sbucciate anche i fichi e riduceteli a pezzettoni. Quando tutto è pronto, infarinate un canovaccio fresco di bucato e con l'aiuto del mattarello stendetevi sopra la pasta strudel, cercando di ottenere un rettangolo il più sottile possibile. Sbriciolate sulla pasta i savoiardi, ricoprite la polvere di biscotto con le mele scolate dal liquido di macerazione, l'uva e i fichi; completate il ripieno disponendo qua e là, sulla frutta, un cucchiaino di confettura. Arrotolate quindi la pasta a mo' di strudel, spennellatela con tuorlo d'uovo e mettete il dolce sulla placca del forno rivestita di carta da forno (non occorre imburrarla). Cuocete a 180° per almeno 40 minuti (dipende dal vostro forno; io l'ho lasciato dentro quasi un'ora).  Servitelo tiepido o freddo, cosparso di zucchero a velo.

































lunedì 5 settembre 2011

TORTA DI COMPLEANNO D'AUTORE






Per i miei 47 anni (che compio oggi) desideravo un dolce speciale, tale da non ricordare nemmeno lontanamente la solita torta di compleanno fatta con Pan di Spagna, crema pasticciera e panna. Lo volevo semplice di aspetto, senza fronzoli e orpelli, ma che non lesinasse nel sapore. E, magari, in omaggio alla mia “terronità”, che utilizzasse gli ingredienti più tipici dell’arte dolciaria del Sud Italia, come le mandorle e i limoni. Combinazione vuole che, mentre così rimuginavo, mi venisse regalato dal maritone il famoso volume di pasticceria: “Dolci del sole” di Sal De Riso (credo che né il libro né il suo autore necessitino di presentazione!) e che, sfogliandolo, rimanessi folgorata dalla ricetta della “Caprese al limone”:  proprio quello che cercavo!!! Una torta evocativa e seducente, da gustare ad occhi chiusi per “vedere” ad ogni boccone l’oro dei giardini di limoni digradanti verso il mare, il verde dei rami scoppianti di mandorle racchiuse nei malli… ed anche qualche bel “fico” del Cilento, perché no! :-D   









INGREDIENTI PER 8 PERSONE:


100 grammi di olio extravergine di oliva

120 grammi di zucchero a velo

200 grammi di mandorle dolci pelate

180 grammi di cioccolato bianco

30 grammi di scorzette di limone candite

1/2 baccello di vaniglia

1 limone Costa d'Amalfi

250 grammi di uova intere (n.5)

60 grammi di zucchero

50 grammi di fecola di patate

5 grammi di lievito in polvere per dolci



Frullate le mandorle con lo zucchero a velo e i semini di vaniglia. A parte grattugiate il cioccolato bianco o tagliatelo molto finemente. In una capiente terrina, con le fruste elettriche, montate le uova con lo zucchero fino a triplicarne il volume. A parte incorporate alla miscela di mandorle e zucchero a velo il cioccolato bianco grattugiato, le scorzette di limone candite finemente tritate, la scorza grattugiata del limone fresco e la fecola di patate setacciata con il lievito. Miscelate tutti gli ingredienti, aggiungete l'olio extravergine d' oliva e infine le uova montate. Emulsionate bene il tutto con una spatola senza preoccuparvi se le uova tendono a smontarsi. Versate il composto in una tortiera imburrata e infarinata con fecola di patate di 22 cm di diametro. Infornate a una temperatura di 200 °C per i primi 5 minuti e poi lasciate cuocere per altri 45 minuti a 160 °C. 
Dopo la cottura, lasciate raffreddare il dolce nella tortiera e sformatelo quando sarà tiepido. Lasciatelo riposare qualche ora, spolverizzatelo con zucchero a velo e servite. 


















































sabato 27 agosto 2011

IL PRIMO RICCIO NON SI SCORDA MAI






Dalla strada si infila in un sentiero stretto tra le canne. Camminiamo in fila indiana perché il canneto è così fitto che non c’è spazio per stare affiancati; le canne che si riavvicinano dopo il nostro passaggio fanno l’effetto di un mare verde che si richiude.
Sbuchiamo su una spiaggia di roccia a lastroni grigiastri ondulati, intervallati da buche. Sembra un paesaggio lunare.
“Ecco Funnumunnu”.
“Cosa?”
“Funnumunnu, in fondo al mondo, questo posto lo chiamano così”.
“E’ bello. Sembra la superficie della luna. Forse lo chiamano così per questo”.
“Qualcuno dice che è questa la vera fine della costa, non il capo. Che è qui che si incontrano i due mari”.
“E lei cosa dice?”
“Io? Nenzi. Niente. Mi piace e basta e poi è davanti casa. E’ l’unico posto dove faccio in tempo a fare il bagno prima di riaprire il negozio. Anzi, meglio che mi sbrigo”.
Si toglie il cappello di paglia e lo lascia cadere su un lastrone, stende con un solo gesto l’asciugamano e altrettanto rapidamente si sfila il vestito. Lo spogliarello più veloce e mozzafiato cui abbia assistito in vita mia. Il suo corpo è una piena di carne trattenuta dal costume, è ancora più di quel che immaginavo.
“Be’, lei non fa il bagno?”
“Sì, certo”.
Per fortuna stamattina non ho messo i pantaloni o i jeans ma ho un paio di calzoncini corti che anche se non sono un vero costume possono andare lo stesso.
Da uno dei lastroni la vedo entrare in acqua con grazia, come se scendesse una scala invisibile.
“Da qui la scesa è facile oppure si può tuffare da quello scoglio più alto accanto” mi grida dall’acqua. A piedi nudi sui lastroni lunari cammino sbilenco come un ubriaco, invidiando la sua dimestichezza elegante. Scalzo non sono capace di muovermi su queste rocce. Tra la discesa e il tuffo non ho dubbi. Mi butto di slancio e in un attimo sento che tutti questi giorni uguali non sono stati che la rincorsa di questo tuffo. Nuoto verso di lei, anche lei mi viene incontro. Siamo così vicini che le nostre gambe si sfiorano nell’acqua.
“Ce l’ha un coltello?” mi chiede a bruciapelo.
“Cosa?”
“Va bene anche un coltellino di quelli piccoli”.
“No, che ci deve fare?”
“Qui è pieno di ricci, sono buoni, li ha mai mangiati? Mi basta anche un sasso piccolo. Ecco, questo può andare”.
Prima che risponda, con la sua arma rudimentale è già sott’acqua a staccare i ricci dagli scogli. La guardo ammirato nuotare in apnea attraverso l’acqua trasparente e tornare su ogni tanto a prendere fiato e a riportare le sue prede. Quando ne ha poggiati una ventina sullo scoglio più vicino li guarda soddisfatta.
“Mi aiuti a portarli su”.
Ne prendo quanti riesco a tenerne nelle mani senza stringere e salgo la scala di scogli nascosta nell’acqua. La guardo uscire dal mare con i capelli fradici lungo il viso e il collo, i capezzoli dritti per il cambio di temperatura, le mani piene dei frutti della sua caccia, e mi sembra una divinità marina antica, una Artemide-Diana cacciatrice del mare. Devo riuscire a controllare la mia erezione, per fortuna i pantaloncini sono larghi.
Posa i ricci neri sull’asciugamano e mentre muovono all’aria gli aculei tira fuori dalla borsa un paio di forbicine, ne prende uno in mano, lo taglia a metà nel senso della larghezza, lo apre in due e fa così con tutti, uno dopo l’altro. Sono affascinato dalla sicurezza delle sue mani, dalla noncuranza con cui recide la vita in movimento.
“Lasci le metà vuote, prenda quelle piene che vanno sciacquate”.
Come un aiuto cuoco in erba eseguo zitto e la seguo all’acqua. Li passa in mare uno ad uno finché all’interno di ognuno non restano che cinque strisce mollicce gialle o arancioni che compongono come una minuscola stella marina.
“Solo questa parte si mangia. Si fa così”.
Infila la punta della lingua nel mezzo guscio e lecca le strisce una per una. La guardo ipnotizzato.
“Be’, aspetta il permesso?”
Mi viene da ridere. La imito. Infilo la lingua nel riccio e lecco anche se mi fa un po’ senso, e ripenso ai rari tiri di coca della mia vita. Non ci posso credere. E’ più buono di un’ostrica. Sembra di mangiare una gelatina di mare concentrato. E poi. Il sapore. Il sapore che lascia in bocca è lo stesso che rimane dopo aver leccato una donna. Mi prende una vertigine. Penso a come potrebbe essere il sapore di lei e per una frazione di secondo mi vedo stenderla, abbassarle il costume e affondare la bocca in mezzo alle sue gambe.
(…)
“Sono femmine”.
“Cosa?”
“Quelle che abbiamo mangiato erano tutte femmine: sono solo le femmine che si mangiano”.
“Ah. Non lo sapevo”.
“Le femmine si fanno mangiare sempre”.
“Be’, non tutte. Ci sono tante donne mangiatrici di uomini”.
“Se mangiano è perché qualcuno ha mangiato loro prima”.
“E’ stato così per lei?”
“Le sembro una così?”
(…)
La seguo a ritroso lungo il sentiero che fende invisibile il canneto, respirando l’odore salato che sale dalle sue spalle, dai capelli ancora bagnati. La seguo fino al cancello di ferro battuto dove lei si gira e mi pianta addosso gli occhi, immobile. Quello sguardo nero di animale che ho visto la prima volta al negozio.
“Be’, arrivederci”.
Di nuovo vuole che me ne vada. E’ la canicola, nessuno per strada a quest’ora, tutti ritirati al riparo dal caldo. Forse ha paura che potrei spingerla dentro il cancello e prenderla a forza sul prato, contro il muro della casa, dove capita, ed è esattamente quello che il mio sangue pensa, il sangue che mi ha gonfiato in modo evidente e scandaloso. Le tendo una mano perché me la stringa, sperando nel contatto mentre mi infilo le unghie dell’altra nella coscia per distrarmi.
Mi dà la mano con la forza di un uomo: “Meglio che si fa una doccia, prima di ripartire per i suoi giri”. Mi pianta così, lasciandomi a chiedermi se si è accorta del mio stato o se era semplicemente un invito a togliermi di dosso il sale.

(Il bacio della tarantola, Giovanna Bandini)



Ho voluto aprire il mio post con questo brano perché la sua lettura mi smuove qualcosa dentro, facendomi rivivere le intense emozioni ed il candido stupore del mio primo incontro con un riccio di mare. Il ricordo è forte ed indelebile nella memoria. Ero piccola e accompagnavo mia madre al mercato ittico: quel giorno per pranzo era prevista pasta con il pesce e bisognava acquistare la classica 'nfilata. La mia curiosità di bambina fu stuzzicata da un banchetto marmoreo interamente ricoperto di ricci che brillavano al sole acquisendo sfumature verdi, violacee e rossicce. Essendo appena pescati, quindi vivi, si muovevano; io, percepito quel movimento, restai imbambolata a fissarli per non so quanto tempo. Ad un certo punto la mano gentile ed incartapecorita di un pescatore che stava aprendo gli echinodermi con ammirevole maestria mi porse un mezzo riccio esortandomi ad assaggiarlo. Avevo paura di tutte quelle spine ed anche l’invito a mangiare un animale vivo mi riusciva tutt’altro che allettante; ma mia madre mi mise il riccio sul palmo della mano dicendo che a tenerlo così, senza stringerlo, non succedeva niente. Fu lei stessa a spiegarmi come mangiarlo: dovevo leccare le strisce arancioni disposte a raggiera. Raccolsi con la lingua il primo “spicchio” e un sapore dolce, sensuale, intrigante invase e soggiogò le mie papille. Da allora il “paracentrotus lividus” (volgarmente ed erroneamente detto “riccio femmina”) è diventato il mio più grande amore culinario, tanto da perdonargli tutte le volte in cui, passeggiando vicino agli scogli, le sue spine si conficcavano nei miei piedi nudi spezzandosi in profondità ed obbligandomi a dolorosi ed estenuanti tentativi di estrazione a suon di ago ed alcool etilico. Certo, sapere che quelle “strisce arancioni” così prelibate ed attraentemente odorose di iodio sono le gonadi dell’animale, ovvero il suo apparato riproduttivo, un po’ di senso lo fa, ma basta non pensarci, chiudere gli occhi e gustarsi il mare in bocca!
Quest’estate, nel corso della consueta capatina al pittoresco mercato storico del pesce situato nella città vecchia, ho scattato qualche foto all’immancabile banchetto dei ricci, principale attrattiva per i turisti, e ai pescatori che stavano preparando i barattoli di polpa di riccio da passare ai ristoratori gallipolini; polpa freschissima, pronta a sprigionare il sapore e il profumo del mare in sfiziose bruschette, irresistibili antipasti e primi spettacolari. Un intero menu a base di riccio io sono andata a gustarmelo a La briciola, un ristorantino vicinissimo al mercato ittico (basta salire la scalinata, attraversare la strada e dirigersi a sinistra: sono pochi metri). Ve lo raccomando caldamente per la bontà dei piatti, i prezzi contenuti, il servizio cortese, l’atmosfera “di casa” e la simpatia del bravissimo cuoco, Antonio, che ringrazio anche da qui per avermi deliziato con le sue indimenticabili linguine ai ricci!




















Bruschetta ai ricci di mare del ristorante "La briciola" (Gallipoli)





Linguine ai ricci di mare del ristorante "La briciola" (Gallipoli)















Monumento al riccio (Gallipoli)