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lunedì 16 gennaio 2012

DULCE DE LECHE





Un’avvertenza: se siete tipi da quattrosaltiinpadella o se l’overdose di Belen Rodriguez in tivù vi ha procurato un’inguaribile repulsione per il “made in Argentina”, questo post non fa per voi. Se, invece, rimestare polenta e risotti a tempo indeterminato vi rende felici e non possedete un televisore (non sapete quanto siete fortunati!) mettetevi pure comodi e lasciate che vi renda edotti sul “dulce de leche” e sui suoi insospettabili risvolti storici e chimici: ho scoperto cose che voi umani non potete neanche immaginare! :)
Sull’origine di questo dolce esistono diverse versioni, ma la più accreditata risale al 1800 e chiama in causa due generali nemici, entrambi argentini e per giunta cugini (tanto per non smentire il famoso detto: “Parenti serpenti”): Juan Manuel de Rosas e Juan Galo de Lavalle (pare che in Argentina non esistano altri nomi). I due si fecero la guerra a lungo prima di capire che, forse, non era tanto saggio combattersi tra fratelli (la guerra non è mai una cosa saggia, ma quella civile è particolarmente idiota): il 24 giugno 1829, quindi, giunsero ad un accordo. Qualche tempo dopo Lavalle raggiunse Rosas nel suo accampamento alle porte di Buenos Aires per sistemare alcune questioni rimaste in sospeso dopo la firma del Trattato di Cañuelas: Juan Manuel non c’era, era uscito in ricognizione con i suoi uomini, per cui gli dissero di attendere. Esausto per il lungo viaggio a cavallo, Juan Galo si addormentò sul letto del nemico e se la doveva russare proprio alla grande se è vero che un servo che passava da lì fu richiamato dai rumori provenienti dalla tenda del comandante, che egli sapeva non essere nell’accampamento. Il servo corse a chiamare aiuto e tornò poco dopo con i rinforzi: il bello addormentato nella tenda fu subito attorniato e solo il provvidenziale ritorno del cugino (quando si dice il tempismo!) lo salvò da un indimenticabile risveglio a colpi di bastone e forcone. Ora, il caso vuole che quell’inserviente stesse attendendo alla bollitura del latte zuccherato che, assieme all’immancabile pagnotta, costituiva l’abituale rancio dei soldati e che in tutto quel trambusto si fosse completamente dimenticato del pentolone lasciato sul fuoco. Chissà che faccia avrà fatto di fronte a quello strano intruglio marroncino che aveva preso il posto del latte! I soldati, però, vollero assaggiarlo e il cucchiaio passò allegramente da una bocca all’altra senza suscitare remore igieniche e riscuotendo il consenso generale: ciò in un colpo solo consegnò all’Argentina la sua più grande gloria nazionale e salvò il servo dal linciaggio :)
Per la cronaca, Lavalle fu lasciato dormire beatamente fino al giorno seguente e così non solo non pigliò i classici pesci, ma si perse pure la prima abbuffata di dulce de leche!
Fin qui la storia; e la chimica? Cosa c’entrerà, costei? Ebbene, dovete sapere che nel pentolone era avvenuta nientepopodimeno che la REAZIONE DI MAILLARD: una reazione, per l’appunto, chimica che avviene tra lo zucchero presente nel latte (il lattosio) e alcuni aminoacidi presenti nelle proteine. Lo zucchero si era caramellizzato regalando alla crema il suo tipico colore marrone (più o meno scuro). Capito tutto? Morale della favola: la prossima volta che vi chiamano al telefono e vi dimenticate la pentola sul fuoco, potreste entrare anche voi nella storia!!! :D







INGREDIENTI:


3 litri di latte fresco intero (l'ideale sarebbe appena munto)

750 grammi di zucchero

una bacca di vaniglia

mezzo cucchiaino da caffè di bicarbonato di sodio



Riunite in una pentola di alluminio molto grande il latte, lo zucchero, la bacca di vaniglia incisa ed il bicarbonato (quest'ultimo favorisce ed accelera la reazione di Maillard, quindi non omettetelo!). Lasciate sobbollire a fiamma bassa per circa due ore, mescolando di tanto in tanto con un cucchiaio di legno (nell'ultima mezz'ora, però, rimestate continuamente).   






La prima volta che l'ho fatto ho ottenuto un "dulce de leche" molto scuro, che sapeva di caramello: non so se tale risultato sia dipeso dalla pentola, di acciaio col fondo spesso e di medie dimensioni, o dal latte di diversa marca. Il sapore è sempre molto buono, ma io preferisco il dulce di leche più chiaro perché risulta più cremoso e sa di mou.   Quanto all'aspetto... giudicate voi!






















Cosa ci ho fatto io col mio dulce de leche? Be', la prima volta non ho fatto in tempo a vederlo ma i miei mi hanno assicurato che era buonissimo, la seconda ne ho usato un po' per fare i mitici "alfajores" ed il resto me lo sono pappato a cucchiaiate, stile Nutella :-D Come si fanno gli alfajores? Ogni cosa a suo tempo! Intanto vi lascio una foto su cui sbavare :)







lunedì 30 agosto 2010

FONDUE BOURGUIGNONNE




Alzi la mano chi, udendo la parola “Borgogna”, corre istintivamente col pensiero ai duchi Filippo l’Ardito, Giovanni l’Impavido, Carlo il Temerario (un Robertino il Codardo, manco a pagarlo oro!) e ai castelli di Bazoches, Tanlay, Cormatin… Risultato: nessuna mano alzata. La sollevi, ora, chi associa alla Borgogna vino, senape e fonduta: en pleine di mani alzate!!! C.v.d. (Come volevasi dimostrare: l’unica cosa di matematica che ricordi!) Sorvoliamo, dunque, su storia ed arte di questa fascinosa regione della Francia centrale ed andiamo dritto dove ci portano… le mani: alla sua cucina! Perché, dopo avervi svelato tutti gli arcani della “Paella valenciana”, nel presente post vi dirò tutto quello che avreste sempre voluto sapere ma non avete mai osato chiedere su un altro celeberrimo piatto della gastronomia mondiale: la “Fondue bourguignonne” . Il piatto consiste nella frittura rapidissima di pezzetti di carne in una pentola particolare, che va riempita per metà di olio bollente e posizionata al centro della tavola, su un treppiede che sormonta un fornelletto. Quest’ultimo ha il compito di mantenere costante la temperatura dell’olio e funziona a gelatina oppure ad alcool: sì, proprio quello rosa del supermercato, terrore ed incubo di tutti i bambini della mia generazione (la sottoscritta in primis) poiché illo tempore veniva utilizzato per disinfettare la cute dei teneri sederini prima delle allora dolorosissime iniezioni. Logicamente l’operazione “accensione fornelletto” richiede un minimo di accortezza per evitare che la tovaglia prenda fuoco trasformando l’ameno convito in un raduno di pompieri. Parliamo ora della caratteristica peculiare della specialità borgognona oggetto del nostro dire: il suo essere estremamente conviviale. Ciò è determinato dalla lentezza del processo di cottura della carne: va da sé che l’attesa stimola la comunicazione verbale tra i commensali, a meno che qualcuno non preferisca schiacciare un pisolino tra un boccone e l’altro o lubrificare il gargarozzo con generose innaffiate del nettare di Bacco. Lasciamo che i signori uomini, sempre banali e superficiali nella scelta degli argomenti di conversazione, disquisiscano di crisi di governo ed elezioni anticipate: noi fiondiamoci sul gossip, così potremo fare sfoggio della cultura che ci siamo fatto quest’estate sotto l’ombrellone sfogliando i vari “Chi”, “Dipiù”, “Maddai”…. E poi, vogliamo mettere le grandi soddisfazioni che dona allo spirito lo spettegolare tra donne della cellulite della Marini o delle labbra-canotto della Lecciso? Ma torniamo alla nostra sciccosissima “fondue”: che tipo di carne ci vuole? Se, oltre a vostro marito, avete sposato la filosofia di Paperon de’ Paperoni secondo la quale due euro risparmiati è meglio che one, lasciate perdere la douce France e le sue fondues: invitate i vostri amici al Mac Donald’s e precisate che si paga alla romana. La “bourguignonne” esige la perfezione, quindi la dispendiosità: polpa pregiatissima (filetto o controfiletto), magrissima, tenerissima (Levissima solo se siete così astemi da preferire l’acqua all’ottimo rosso con cui la carne predilige accompagnarsi). Se poi la fonduta volete farla lo stesso utilizzando tagli mediocri, sappiate che tutti avranno il diritto di darvi della str… e di optare per il Mac Donald’s di cui sopra (senza di voi, però!). Passiamo al condimento: una volta infilzato il succulento cubetto con l’apposita forchettina a due punte dal manico di legno pippobaudesco (lunghissimo, cioè) messo a cuocere nell’olio e ritirato nel proprio piatto a più scomparti possibilmente senza dispensare schizzi di grasso bollente a destra e a manca, quali salsine fargli trovare ad attenderlo? A questo riguardo le indicazioni sono piuttosto rigide: che piacciano o no, sono d’obbligo salsa rossa, bernese, tartara e bourguignonne (io vi ho aggiunto tzatziki, ajvar e pesto alla menta e il senso di colpa non mi abbandona ancora). Per concludere in bellezza, c’è chi giura che la “Fondue bourguignonne” nasconda un risvolto erotico e perfino orgiastico, favorito dallo stare vicini vicini attorno al fornello, dal prendere i bocconcini dallo stesso piatto, dal passarsi le verdure e le salse, dal riempirsi a vicenda il bicchiere… Capito, ragazze? Perciò, di corsa! Tutte a preparare la “bourguignonne”!






INGREDIENTI:


150-200 grammi pro capite di filetto di manzo (io ho fatto un misto di manzo e vitello) tagliato a cubetti monoboccone di un paio di centimetri di lato;






un vassoio extralarge stracolmo di verdure fresche e croccanti tagliate a bastoncino o come vi pare, da gustare in pinzimonio come contorno alla carne;






tante sfiziose salsine preferibilmente fatte in casa (tanto la maggior parte di esse si possono preparare con qualche giorno di anticipo e conservare in frigorifero, protette da pellicola trasparente), tra cui non possono mancare le quattro sopracitate (se non vi piacciono le darete al gatto).






Non credo che occorra istruirvi su come tagliare carne e verdure, per cui passo direttamente a spiegarvi come si fanno le salsine... eccetto la "bourguignonne", di cui non sono riuscita a reperire la ricetta. Ne ho acquistato un vasetto di marca francese al supermercato e leggendo gli ingredienti riportati sull'etichetta ho capito che è a base di vino rosso, malgrado all'assaggio sappia più di aceto. Eccola:







Bene, ora finalmente potrò dare uno scopo alla mia vita: scoprire la ricetta della "sauce bourguignonne"! Eccovi le altre.






SALSA KETCHUP
INGREDIENTI:


500 grammi di polpa di pomodoro fresco, senza semi
(io ho usato i perini da sugo)

50 ml di ottimo aceto di vino rosso

50 ml di olio extravergine di oliva

40 grammi di zucchero semolato

1 cucchiaino raso di sale

1 cucchiaino di maizena

1 cipolla

1 carota

1 gambo di sedano

1 spicchio di aglio

un pezzetto di stecca di cannella

qualche chiodo di garofano

peperoncino a piacere



Il ketchup non ha certo bisogno di presentazione. Mi ha divertito prepararlo in casa e non appena l’ho assaggiato mi è partito un sorriso a trentadue denti, perché mi è venuto davvero buono, molto più di quello in commercio! Fate dorare nell’olio caldo le verdure tritate; aggiungete la polpa di pomodoro, la cannella e i chiodi di garofano e lasciate cuocere per un quarto d’ora a fuoco basso. A questo punto unite l’aceto, lo zucchero, il sale ed il peperoncino spezzettato; mescolate e proseguite la cottura per un’oretta, sempre tenendo la fiamma al minimo e bagnando con qualche cucchiaio di acqua calda se la salsa tendesse a restringersi prematuramente. A cottura quasi ultimata aggiungete la maizena sciolta in una tazzina di acqua tiepida, per favorire l’addensamento. Passate il tutto al passaverdure o al frullatore: la vostra deliziosa salsa ketchup è bell’e pronta!





      AJVAR



E’ una salsa a base di peperoni rossi, tipica dei Balcani ma molto diffusa anche nella nostra Trieste: ottima!!!



INGREDIENTI:


3 peperoni rossi grandi e carnosi (o 4 più piccoli)

1 melanzana non troppo grande (circa 300 grammi)

1-2 spicchi di aglio

50 ml di olio di semi di girasole
(io ho usato l’extravergine di oliva)

sale

peperoncino a piacere

un filino di aceto di vino bianco



Fate arrostire in forno i peperoni e la melanzana, poi spellateli e macinateli (oppure frullateli). Mettete l’olio in una pentola larga e bassa e fatevi dorare l’aglio tritato; aggiungete la crema di ortaggi e il peperoncino, salate e lasciate stufare per almeno un’ora (la ricetta originale di ore ne prevede due, ma un tempo di cottura così lungo mi è sembrato eccessivo). A fine cottura potete condire il vostro Ajvar con poco aceto o succo di limone (io l’ho lasciato “nature”).





SALSA TARTARA



Malgrado il nome induca a pensare ai Tartari, la salsa è tutta francese: l’hanno inventata i nostri cuginetti dalla erre moscia per accompagnare la “tartare” di carne. In pratica è una comune maionese arricchita da erbe e sottaceti.



INGREDIENTI:



2 cucchiai di maionese casalinga

1-2 cetriolini sott’aceto

1 cucchiaino di capperi sott’aceto

qualche filo di erba cipollina o un pezzetto di cipolla

1 cucchiaio di prezzemolo

1 cucchiaino di senape


Amalgamate alla maionese la senape, poi unitevi tutti gli altri ingredienti finemente tritati ed un pizzichino di pepe.








SALSA BERNESE

INGREDIENTI:




60 ml di aceto di vino bianco


150 grammi di burro


3 tuorli d’uovo


2 cucchiai di dragoncello


1 scalogno


un pizzico di pepe bianco



Si tratta, in sostanza, di una maionese particolare, preparata con il burro anziché con l’olio. Va servita tiepida e, se messa in frigorifero (come ho fatto io con quella avanzata), diventa un blocco burroso immangiabile: quindi, preparatela poco prima di andare in tavola e fino al momento di servirla tenetela coperta da della pellicola di plastica trasparente, altrimenti la superficie si solidificherà (come è successo a me). Insomma, è una salsina molto delicata che richiede attenzione, ma il suo gusto insolito mi è piaciuto e la sua realizzazione casalinga si è rivelata assai meno complicata di quanto temessi! Mettete in un pentolino l’aceto, lo scalogno tritato ed un cucchiaio di dragoncello (erba aromatica  caratteristica di questa salsa che andrebbe usata fresca, ma io l’ho trovata soltanto secca, in barattolo, col nome di “estragon”); portate ad ebollizione e fate ridurre fino ad ottenere circa due cucchiai di liquido aromatizzato. Occhio, però: l’aceto evapora rapidamente! Io, pensando che occorresse molto più tempo, mi sono allontanata dai fornelli e al mio ritorno, dopo pochissimi minuti, ho trovato il pentolino vuoto! Passate l’aceto al colino e versatelo in una casseruolina pulita, che porrete in un’altra pentola più grande contenente acqua in ebollizione (la salsa va cotta a “bagnomaria”). Unite i tuorli (ricordatevi di tirare le uova fuori dal frigorifero qualche ora prima dell’utilizzo) e mescolate bene con una frusta; ci vorrà pochissimo perché si addensino. A quel punto togliete la casseruolina dal fuoco, continuando però a tenerla nell’acqua calda del bagnomaria, e incorporate, un pezzetto alla volta, tutto il burro (lasciato ammorbidire a temperatura ambiente, per facilitare l’operazione), aiutandovi con la frusta. Completate con il cucchiaio di dragoncello rimasto e con il pepe bianco.







 TZATZIKI

INGREDIENTI:



200 grammi di yogurt greco

1 cetriolo

1 o 2 spicchi di aglio, a seconda dei gusti
(a me l’aglio piace molto, quindi ho abbondato)

1 cucchiaio di olio extravergine di oliva

qualche fogliolina di menta fresca

olive nere

sale

pepe





Anche questa è una salsa famosissima: in Grecia accompagna praticamente ogni cibo, dalla carne al pesce, e costituisce un componente essenziale del kebab turco. Secondo me è meglio non prepararla con eccessivo anticipo: una sosta di un paio d’ore in frigorifero è sufficiente per consentire la totale compenetrazione dei sapori. Sbucciate il cetriolo, privatelo dei semi e grattugiatelo. Spolverizzate leggermente di sale la poltiglietta ottenuta e lasciatela in un colino a perdere quell’acqua che sicuramente comprometterebbe la buona riuscita dello Tzatziki, dopodiché adoperatevi con carta assorbente da cucina per asciugare il più possibile il povero cetriolo disidratato. Unitelo allo yogurt assieme all’aglio sbucciato e ridotto in crema, alla menta tritata (che nella versione turca viene sostituita dall’aneto), all’olio e ad un pizzichino di sale e pepe. Mescolate con cura tutti gli ingredienti. Riempite una ciotolina con la salsa e decoratela con un ciuffetto di menta e qualche oliva.



Se ne avete abbastanza di me e della mia fonduta fermatevi qui, altrimenti sorbitevi le altre foto :-) Buona "Fondue bourguignonne" a tutte (in particolare a Tiziana, Federica, Viola, Elisabetta, Dany, Imma e Marilù: occhio agli "effetti collaterali", tesorucce)!!!
 


































giovedì 22 luglio 2010

PAELLA ALLA LUCIA




INGREDIENTI PER QUATTRO PERSONE:


280 grammi di riso
(preferibilmente a chicco piccolo e tondeggiante)
600 ml di ottimo brodo di carne
(assolutamente non di dado!!!)
una bustina di buon zafferano
olio extravergine di oliva
una grossa cipolla
qualche spicchio d'aglio
un bicchiere di vino bianco
un ciuffo di prezzemolo
un peperone rosso e uno giallo
sei pomodori maturi e sodi
100 grammi di piselli freschi
1 kg di cozze
4 scamponi
8 gamberoni
un petto di pollo
200 grammi di carne di maiale magra
un pezzo di salsiccia lunga






Gli ingredienti devono cuocere separatamente, ma nella stessa padella, partendo dai crostacei. Quindi fate soffriggere prima gli scamponi in olio e aglio, salandoli leggermente; poi togliete questi dalla padella (teneteli in caldo) e ripetete l'operazione con i gamberoni.   






Passate alla carne, che avrete ridotto a cubetti: sempre separatamente, cuocete prima il pollo, poi il maiale e infine la salsiccia (utilizzate lo stesso olio dei crostacei, aggiungendo ogni tanto un cucchiaio di olio nuovo). A parte fate aprire le cozze con  vino, aglio e prezzemolo; filtrate l'acqua di cottura e unitene un bicchiere al brodo di carne. Sgusciate i molluschi, ma ricordate di tenere da parte le cozze più belle, complete di guscio, per la decorazione della paella.






Preparate il soffritto base; aggiungete all'olio che avete nella padella il peperone giallo, l'aglio e la cipolla,  tutti e tre tritati finemente. Appena saranno dorati, unite i pomodori (sbucciati, privati dei semi e dell'acqua di vegetazione e tagliati a pezzetti) e lasciate cuocere per una decina di minuti.  Nel frattempo sbollentate i piselli. Quando il sughetto si sarà addensato, unitevi tutta la carne, i piselli e il brodo caldo (nel quale avrete sciolto lo zafferano); versate quindi il riso. Date una bella mescolata, poi non toccate più il riso fino ad assorbimento del brodo (al massimo scuotete la padella). Un paio di minuti prima della fine della cottura, aggiungete le cozze sgusciate e i gamberoni.






Lasciate riposare la paella nel tegame per una decina di minuti, poi decoratela con le cozze, gli scamponi e il peperone rosso (che avrete arrostito, spellato e tagliato a listarelle).






A meno che non siate uno schifiltoso valenciano... (leggi qui ) vi piacerà! ;-)

martedì 20 luglio 2010

PAELLA ALLA LUCIA (GENESI)

La paella la conosciamo tutti. O meglio, crediamo di conoscerla!… finché non decidiamo di farla in casa nostra. Allora, solo allora, capiamo che, in realtà, le nostre conoscenze sul piatto più famoso della cucina iberica non sono poi così salde e sicure.
Ma procediamo con ordine. Innanzitutto vi starete chiedendo perché mi sia venuto il ghiribizzo di preparare la paella e non, ad esempio, l’untuosa e sontuosa carbonara emblema di Roma caput mundi. Mah! Sarà l’effetto mondiali o la mia innata tendenza a complicarmi la vita… Scegliete voi. Fatto sta che una mattina mi sveglio pensando: voglio fare la paella! Tanto, che ce vo? Basta andare in Internet, digitare: “ricetta originale paella” e attendere che saltino fuori ingredienti e procedimento della “paella valenciana”, quella con carne e pesce; perché, lo sanno tutti, è lei l’originale!
Primo pugno in faccia: la paella che ho in mente io ci azzecca con Valencia quanto Di Pietro con l’italiano. Detta “mixta” o “turistica”, giusto per non lasciare alcun dubbio circa i destinatari, risulta essere, appunto, una mera invenzione per turisti, un po’ come Babbo Natale per i bambini: i valenciani preferirebbero farsi torturare piuttosto che ingoiare un solo boccone di quell’obbrobrio culinario. Ma alura (come dicono qui a Berghem), qual è sta benedetta “paella alla valenciana”? Con la mia caparbietà meridionale faccio una ricerca approfondita ed accurata e scopro tutto, ma proprio tutto, sul piatto in questione (mi manca solo il suo DNA). La “paella alla valenciana” è nata qualche secolo fa ad opera dei contadini dell’Albufera, una zona umida a sud di Valencia tradizionalmente dedita alla coltivazione di riso e ortaggi mediterranei, nella quale viene anche prodotto un ottimo zafferano. A questi ingredienti principali veniva talvolta aggiunta la carne di un coniglio selvatico o di qualche lumaca reperiti in loco. Se proprio era festa grande, veniva sgozzato anche un bel pollo. Così, il piatto spagnolo più famoso al mondo altro non è che un banale risotto di carne e verdure! Risotto? Secondo pugno in faccia: la paella NON è un risotto!
Scordiamoci, noi italiche cuochine, la tostatura del riso, la sfumata col vino bianco, il brodo aggiunto poco per volta controllando che il precedente sia stato interamente assorbito… Il riso si versa DIRETTAMENTE nel brodo, rigorosamente crudo. E non ci son santi.
Beh, meglio così, penso io. Un procedimento di cottura semplice semplice, basta solo ricordarsi di mescolare il riso di tanto in tanto… Meeeescolare cheeeeee??? Il riso NON si mescola!!! Il riso deve addirittura attaccarsi un po’ al fondo della padella, altrimenti la "socarrada" come fa a formarsi? Vi state chiedendo che azzolina è? Perfetto: me lo son chiesto anch’io! E’ lo strato di riso che, logicamente, brucia per effetto della non mescolatura. Ogni paella che si rispetti è tenuta ad avere la sua brava crosticina bruciacchiata, per la gioia dei suoi cultori, e sappiate che a Valencia esiste perfino un ristorante intitolato alla sacra socarrada.
Quindi, se, come me, già sapete che non sarete in grado di resistere al richiamo della rimestatura, fate come Ulisse, che per resistere al canto delle Sirene si fece legare all’albero maestro della nave: incatenatevi alla gamba del tavolo. Oppure procuratevi il calendario di Gabriel Garko e per un quarto d’ora vi dimenticherete non solo del riso, ma di qualunque cosa vi ruoti attorno.
Per finire: la cottura della paella deve avvenire nella paellera, il caratteristico tegame largo e rotondo con due manici che dà il nome alla pietanza, e il fuoco dev’essere regolato con un adattatore per il fornello, ovvero un congegno che si attacca all’uscita del gas ed espande la fiamma per farla larga come la paellera. Con la cultura che mi son fatto, sfido chiunque a saperne più di me su paella, annessi e connessi! Ma veniamo al dunque: il coniglio non mi piace, le lumache a Bergamo ‘ndo le trovo, la paellera non ce l’ho e men che meno l’adattatore… e per me la paella è, e rimarrà, quella con carne e pesce insieme. Conclusione? Mi son fatto una paella su misura. Una paella “mixta”. Anzi, di più. “Turistica”. Alla faccia degli schifiltosi valenciani!


Ricetta e foto ve li posterò domani perché stasera vado fuori a mangiare... no, non la paella! Un'italianissima pizza :-)